ERA IL 23 FBBRAIO DELL’ANNO SCORSO….quando a Milano abbiamo fatto la prima e purtroppo l’ultima presentazione del meraviglioso libro fotografico ”Le strade della misericordia”; quella sera stessa lo scoppio della pandemia!Una serata bella nel corso della quale il carissimo amico e collega psicoterapeuta Danilo,ha presentato il libro ,spendendo parole intense e vere che ci hanno aiutato a comprendere maggiormente lo scrigno prezioso che questo libro racchiude. Ecco che lui stesso ci scrive un prezioso contributo che affido alla vostra lettura. Don Ermanno
E’ con grande entusiasmo che accolgo questa opportunità di lasciare una mia testimonianza del percorso personale vissuto col Giardino delle Rose Blu.
Premetto che ho conosciuto il Giardino e don Ermanno in maniera molto casuale, come spesso accade per gli eventi rilevanti della nostra vita e tra il 2008/2009 ho affrontato le mie prime esperienze con lui, prima in Croazia a Gornja Bistra, poi in Bosnia subito dopo come primo campo invernale, in avanscoperta.
Allora ero oltre che volontario anche un neo psicoterapeuta e neuropsicologo in piena ricerca della mia identità professionale, oltre che personale, visto che proprio in quel periodo anche la mia storia sentimentale si trovava all’inizio di una situazione difficile che sarebbe da li a non molto diventata una vera e propria crisi.
L’occasione che proprio come coppia allora affrontammo divenne un modo per guardarci entrambi dentro in maniera più vera e senza scontri.
Pertanto nel parlare di questa esperienza emergeranno due punti di vista sovrapposti, quello del volontario che la vive e quella dello psicoterapeuta che la integra cognitivamente per cercare di capirla, contenerla e accoglierla per poi calibrare l’aiuto che effettivamente può essere dato.
Mi piace stare in questo scritto su entrambe le dimensioni, come di fatto dovrebbe sempre essere per chi fa il mio mestiere.
Unirle non vuol dire non emozionarsi, tutt’altro, ma aggiungere a ciò lo sforzo di capire la propria emozione per comprendere quella dell’altro.
Un’esperienza “magica” o che definirei ancor meglio “sacra” e che mette in evidenza ciò che don Ermanno stesso ha fatto della sua vita, ovvero unire la religione con la psicologia.
L’ascolto profondo di una persona è sempre un’esperienza sacra, solo considerandola tale, puoi tutelare la persona ed aiutarla.
Se guardo le due facce mi dico: qual è la fatica?
Il volontario ci dice spesso che è partito per capire qualcosa di sé, per rispondere a delle domande che necessitavano una risposta e invece ritorna con nuove domande, più costruttive di quelle con le quali era partito e aggiunge: “Non ho più avuto la pretesa di avere delle risposte”.
Io stesso ero partito per questa esperienza proprio perchè in quel periodo la mia stessa vita privata non era in una situazione facile e necessitavo di risposte.
Perciò era chiara in me una cosa fondamentale, ovvero che se io stavo partendo con queste necessità non stavo andando a dare, ma stavo andando con un principio fortemente egoistico, primariamente egoistico e questo avrei dovuto tenerlo ben presente.
Tuttavia, penso che non esista un altruismo senza un sano egoismo di fondo che lo spinge; non esiste una mente che voglia fare una cosa se questa cosa non gli interessa, se non gli piace o non gli dia un vantaggio.
Il processo appena descritto lo definisco sano poiché in psicologia si lavora per dare un senso all’esperienza, non certo per aiutare le persone a prevedere e controllare il mondo, ma per aumentarne il loro potere personale, ovvero, per far fare loro delle cose che le fanno essere il più possibile loro stessi.
Qualche volta non ce la si fa e il potere personale non è in questo caso quello di controllare tutto, ma di permettersi di dire che non ce la si fa.
Devo anche dire però che Croazia e Bosnia all’interno del volontariato del Giardino delle Rose Blu sono esperienze molto diverse: da una parte i pazienti dall’altra i reduci, un modo diverso di vedere il risultato di una guerra e più su questi ultimi mi soffermerò.
I pazienti come soggetti, piccoli e grandi, ospedalizzati, da sostenere nella loro vita all’interno dei nosocomi, i reduci, invece, che vivono nelle loro case in villaggi dove sono avvenuti veri e propri stermini di massa, con la conseguenza di avere perso tutto ciò che avevano (persone care e cose) e di avere visto davanti ai loro occhi questa perdita, senza aver potuto fare niente per fermarla, di essersi dati perciò anche la colpa, innescando un processo di conseguenza auto-distruttivo.
Mi ricordo nel dettaglio i colloqui con don Ermanno in quella prima spedizione pionieristica in Bosnia dove si voleva ancora capire cosa si potesse fare, per cui sono molto orgoglioso anche di averla fatta in questa logica di scoperta, mentre a Gornja ero arrivato in una situazione già molto strutturata.
Queste conversazioni vertevano sul fatto che queste persone avrebbero potuto ricevere il nostro aiuto solo se fossimo stati attenti a certe cose, perché altrimenti l’aiuto avrebbe rischiato di far risuonare ancora di più in loro quello che non avevano più, quello che gli era stato strappato.
Quell’aiuto avrebbe rischiato di scatenare pensieri distruttivi, cioè rischiava esso stesso di diventare il motivo della rievocazione della perdita.
Quello che capimmo era che forse loro dovessero essere aiutati a costruirsi da soli quello che gli mancava.
E’ qui che ho capito che esistono due diversi modi di declinare l’aiuto, che non sono la stessa cosa e che non si devono confondere, ovvero, un donare e un sacrificarsi .
Se io dono cercherò di farlo con l’intento di capire cosa realmente posso portare all’altro, che appartenga al mondo dell’altro, il che presuppone uno sforzo per fargli arrivare il messaggio di comprensione profonda di quello che lui mi ha trasmesso.
Il sacrificio invece presuppone una privazione e insitamente una sofferenza.
E quella sofferenza alla quale mi sono sottoposto lascerà un subliminale anelito al risarcimento; una parte di me che io lascio all’altro e che presuppone in questa forma un rimborso, un ritorno del tipo… sacrificio per sacrificio…come un genitore che dice al figlio: “io che ho fatto tanti sacrifici per te perché mi fai questo adesso?”
Il sacrificio naturalmente, per quanto talvolta importantissimo, non è l’ottica che il giardino vuole passare, ma appunto il dono, per portare all’altro un messaggio diverso, cioè che si viene per accendere un motore che c’è già nell’altro, che si è spento per qualche motivo superiore a lui, ma che c’è dentro di lui, perché possa ripartire con le sue forze.
Io do uno stimolo e non porto delle mie cose sulle quali poi tu costruirai la tua esistenza, poiché questo sarebbe ancora più disarmante e scatenerebbe questo pensiero: “se poi me le toglie io non ho più garanzia della mia esistenza”.
Adesso sono conscio di essere cresciuto in questa esperienza, non solo come persona per la bisognosità che portavo, ma anche come psicologo.
I concetti che vedevo sui libri li ho ritrovati in maniera esplicita, per primo il concetto che traduce il motore che c’è dentro di noi e che ci porta naturalmente a svilupparci con le nostre forze e fragilità si chiama tendenza attualizzante; essa ci spinge ad essere sempre più attuali, ad adattarci.
Essa può essere talvolta schiacciata, soffocata o repressa da eventi che impattano sulla nostra vita, ma non muore mai, basta riaccenderla o anche solo credere o far credere di poterla sempre riaccendere.
Portare un dono è dunque accettare una persona incondizionatamente, ecco cosa vedeva quello psicologo.
Accettarla per quello che è, gli restituisce un valore e solo allora essa riparte: non come quel genitore che seppur per bontà dice al figlio “se vuoi diventare grande fai come ti dico io”… e se poi il genitore non ci fosse più? cosa succederebbe? Si ritorna piccoli? Ebbene si, succede forse perché eravamo aggrappati a qualcosa che ci sembra esserci sfuggito e non alla nostra tendenza attualizzante.
Ecco dunque, dopo questi concetti, cosa significa anche l’ascoltare empaticamente qualcuno, ovvero coglier l’emozione che lui sta provando e qualunque essa sia dargli valore come unica cosa che vale in quel momento e che semmai potrà poi cambiare tante volte, ma che se non cominciamo a validarla adesso non potrà ripartire; se volesse ripartire provandone delle altre e negandola allora non starebbe ripartendo davvero.
Per fare questo bisogna esserci nella relazione.
Quando stiamo aiutando dobbiamo commuoverci, sentirci fragili, dobbiamo gioire e piangere congruentemente con quello che sta succedendo in quel momento…dobbiamo esserci anche noi.
E’ qui che il volontario mette al centro la persona, alla quale dona in reciprocità.
Concludo col dire che la parola dono richiama un’altra parola, che è perdono e se il dono è davvero tutte queste cose, allora la bisognosità ci serve in primo luogo per per-donarsi e poi per-donare.
Se alla base mettiamo questo allora possiamo cominciare ad affrontare le difficoltà e scalare la montagna che ora ci apparirà meno grande di quella che inizialmente ci era sembrato…proprio questo è ciò che mi è successo!
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