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La Joint Criminal Enterprise nella giurisprudenza del TPIJ. Il caso di Srebrenica

Secondo la dottrina della Joint Criminal Enterprise, in presenza di determinate condizioni attinenti agli elementi oggettivo e soggettivo del reato, ogni membro appartenente ad un gruppo organizzato è direttamente responsabile per tutti i crimini commessi dal gruppo stesso.
In sostanza, per l’individuazione del nesso di causalità tra condotta ed evento, non è richiesto che il singolo componente del gruppo criminale abbia commesso fisicamente l’atto tipico: il membro dell’associazione a delinquere potrà essere ritenuto autore del reato per aver contribuito alla realizzazione del piano e aderito all’intento criminale del gruppo, pur non avendo partecipato direttamente alla commissione dell’actus reus. Inoltre, nonostante non tutti si trovino d’accordo in merito, un individuo potrebbe essere giudicato colpevole di un evento criminoso non previsto originariamente nel piano comune, ma che rappresentava una naturale e prevedibile conseguenza di quel progetto.
La prima condanna in assoluto emessa da un tribunale internazionale risale al leading case Tadić, in cui il TPIJ ha distinto tre diverse categorie di JCE, a seconda della diversa modalità di partecipazione al gruppo criminale. Esse sono costituite da un elemento materiale comune, suddiviso in tre distinti aspetti: una pluralità di persone (non necessariamente organizzate in una struttura militare, politica o amministrativa), l’esistenza di un piano comune che implichi la commissione di uno dei crimini previsti dallo Statuto, ed infine, la partecipazione dell’imputato al piano stesso.
Assume, invece, forme diverse l’elemento della mens rea. Nella prima categoria (JCE I) è richiesto un intento condiviso, da parte di tutti i membri dell’enterprise, di commettere un certo crimine.
La JCE II, invece, si riferisce al caso paradigmatico dei campi di concentramento. In tale ipotesi, l’accusato deve essere a conoscenza del sistema di maltrattamenti e dello scopo che è alla sua base.
La terza tipologia (JCE III), alquanto controversa, concerne crimini non preordinati nel progetto comune. L’elemento psichico, in questo caso, è costituito dall’intenzione di partecipare e perseguire l’attività criminale del gruppo. In sostanza, la mens rea consiste nella prevedibilità che almeno un membro del gruppo commetta il crimine in oggetto e, da parte dell’imputato, la consapevole assunzione del rischio che ciò accada (dolus eventualis). Come risulta evidente, la JCE III richiede una mens rea piuttosto attenuata e generica rispetto alle prime due.

L’applicazione della dottrina della JCE ha avuto un ruolo cruciale in alcune delle più importanti e recenti sentenze di condanna emesse dal TPIJ in relazione ai fatti di Srebrenica, data la gestione comune della politica genocidaria.
Ai fini di una maggiore chiarezza nella comprensione dell’istituto, è indispensabile riassumere brevemente i fatti che sono alla base dei giudizi in questione.
Il preludio al massacro di Srebrenica può essere rintracciato nel maggio del 1992, quando i leaders serbo-bosniaci Karadžić e Mladić, il Presidente serbo Milošević ed i Generali della Jugoslavenska Narodna Armija (JNA) si accordarono per rimuovere definitivamente i bosgnacchi ed i croato-bosniaci dai territori rivendicati dall’autoproclamata Republika Srpska. Siccome la programmata pulizia etnica comportò un massiccio numero di espulsioni, la costituzione di campi di detenzione ed un elevato numero di uccisioni nei campi stessi, Karadžić e Mladić sono stati accusati di essere membri di una JCE, che implementò tali delitti per raggiungere l’obiettivo prefissato. La politica diretta alle rimozioni forzate, tuttavia, non era stata progettata direttamente per l’enclave di Srebrenica: in effetti, il Generale dell’esercito bosniaco-musulmano, Halilović, aveva firmato un accordo con Mladić nel 1993 e le forze internazionali interessate nella vicenda, il quale riconosceva la costituzione di una safe area a Srebrenica, che sarebbe stata affidata di lì a poco all’UNPROFOR.
Fu solo nel Marzo 1995 che l’Esercito della Republika Srpska (Vojska Republike Srpske, VRS) ed il Ministro dell’Interno serbo-bosniaco Mićo Stanišić decisero di rimuovere l’intera popolazione musulmana da Srebrenica, Žepa e Goražde. La Direttiva n. 7 dell’8 Marzo 1995, sottoscritta dallo stesso Karadžić ed inviata ai comandanti dei vari Corpi dell’esercito, testimonia il cambio di politica: il documento – secondo la dettagliata analisi del caso Mladić – ordinava ai Corpi Drina di “creare una condizione di totale insicurezza [a Srebrenica ed a Žepa], attraverso operazioni di combattimento pianificate e ben strutturate, in modo da non lasciare alcuna speranza di vita” agli abitanti delle due enclavi. La Direttiva, inoltre, chiedeva di provvedere ad un limitato rilascio di permessi, per ridurre il supporto logistico e di risorse dell’UNPROFOR ai bosgnacchi, evitando, allo stesso tempo, le condanne della comunità internazionale.
CSC_0148L’obiettivo dei serbo-bosniaci, in tutta evidenza, era quello di conquistare le città attraverso l’isolamento e lo strangolamento; una strategia di guerra, questa, che caratterizzò anche il lungo assedio di Sarajevo.
L’attacco a Srebrenica iniziò il 6 luglio e la città cadde il giorno 11. Non è chiaro se il genocidio era già stato contemplato al momento dell’attacco, ma nel caso Popović e altri è stato accertato che il piano mirante all’annientamento totale degli uomini musulmani iniziò ad essere implementato il 12 luglio, con la separazione dei maschi in età militare dal resto della comunità11.
In questo frangente, la Camera di prima istanza ha distinto tra una JCE mirante alle uccisioni ed una finalizzata alla pulizia etnica dalla safe area. La prima riguardava, tra gli altri, gli ufficiali Popović, Beara e Nikolić, i quali condivisero la common purpose di sterminare gli uomini bosgnacchi. In particolare, Popović era il tenente-colonnello che diresse le esecuzioni perpetrate ad Orahovac e coordinò le uccisioni nella fabbrica militare di Barnjevo e nel Centro Culturale Pilica (16 luglio); Beara si interessò di individuare dei luoghi adatti allo sterminio e di sorvegliare l’esecuzione del piano; mentre Nikolić, agendo dietro le quinte, procurava il personale per l’esecuzione dei prigionieri ed impartiva ordini in uno dei siti utilizzati per gli omicidi.
La JCE relativa alla ethnic cleansing, invece, trova origine nella Direttiva n. 7 e riguarda la responsabilità di altri ufficiali militari, tra i quali Miletić. Secondo il TPIJ, quest’ultimo diede un contributo significativo all’impresa criminale, essendo stato coinvolto nella stesura delle Direttive 7 e 7/1, avendo ridotto gli aiuti umanitari ed il rifornimento dell’UNPROFOR ed essendo stato il coordinatore, nell’esercizio delle sue funzioni, delle informazioni da rivolgere allo stato maggiore del VRS. Tuttavia, sia in primo grado che in appello Miletić è stato condannato per genocidio applicando la terza categoria di JCE, per le “uccisioni opportunistiche” commesse dalle forze serbo-bosniache a Potočari, poiché tali crimini erano una prevedibile conseguenza dell’intesa mirante alle rimozioni forzate: l’imputato, appunto per questo, si era assunto il rischio che tali eventi sarebbero occorsi.
Grazie alla distinzione tra due differenti modalità di JCE, l’attribuzione della colpa tiene maggiormente conto della funzione avuta nel compimento dei crimini da parte del Ministero dell’Interno, del VRS e dei singoli leaders politici e militari. È plausibile che i maggiori vertici, come Karadžić e Mladić, siano stati membri di una più generale criminal enterprise rivolta allo sterminio del gruppo musulmano, poiché le operazioni programmate compresero sia le rimozioni forzate sia le uccisioni. L’elemento di discrimine nella volizione dei responsabili, dunque, si instaurerebbe più in basso nella catena di comando, come dimostra il fatto che anche Popović, Beara e Nikolić (che non erano certo delle massime autorità del calibro di Karadžić e Mladić) non sono stati incriminati per la JCE finalizzata alla pulizia etnica, ma direttamente per genocidio.
In ogni caso, come è stato sottolineato in dottrina, esiste sempre un certo grado di compenetrazione tra le due fattispecie, visto il rapporto di consequenzialità tra il dislocamento forzoso e gli omicidi commessi: ad esempio, come anticipato, Miletić (tra i responsabili della pulizia etnica) è stato condannato anche per le uccisioni, in ragione della prevedibilità che il piano preordinato sarebbe potuto degenerare in genocidio.
Bisognerebbe, dunque, fare attenzione alla relazione tra le condotte punibili, per evitare l’applicazione meccanica dei canoni dell’impresa criminale comune, rischiando così di non accertare i ruoli effettivi degli imputati. Un onere per il giudice, questo, che diventa sempre più gravoso col trascorrere del tempo.

Paolo Falciani

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